Quanto durerà questa emergenza e in che condizioni lascerà il Paese, il sistema economico e quello sanitario? Quante imprese, in particolare nei settori più colpiti riusciranno a ripartire? E quanti rischieranno di rimanere senza lavoro? La pandemia sta assorbendo la nostra attenzione, occupa le nostre riflessioni con il rischio di azzerare la percezione delle altre emergenze.
La pandemia ha destabilizzato la vita quotidiana, le nostre abitudini (si sono ridotti i contatti, è cambiato il modo di lavorare, di condurre le relazioni, la paura del contagio che ci costringe a stare lontani dagli altri …) generando incertezza e instabilità. Per molte persone, il virus non ha fatto che aggravare quel senso di insicurezza e di solitudine che oggi è diventata isolamento con numerosi disturbi d’ansia e di depressione.
Questi mesi di sospensione e di incertezza ci hanno cambiato. Anche se questa pandemia avremo voglia di lasciarcele alle spalle il più in fretta possibile, nessuno potrà far
e finta che tutto questo non sia mai successo. Arriverà, non c’è dubbio, anche il momento in cui saremo in grado di tenere a bada la COVID-19, grazie a nuovi farmaci e allo sviluppo dei vaccini.
Ma come guardare al futuro? Come orientarsi? Credo che bisogna riflettere prima di tutto sulla grande fragilità del nostro sistema. Non possiamo più trascurare i segnali di quella che va interpretata come una crisi di sistema: quanto credevamo solido si rivela invece friabile e liquido.
Guardando ai primi vent’anni di questo nuovo secolo, non è la prima volta che facciamo i conti con la sensazione di aver smarrito dei punti di riferimento. Non possiamo tornare come prima con l’illusione di tenere tutto sotto controllo.
Di tenere sotto controllo l’individualismo trasformato in sistema politico-economico che tutela gli interessi di pochi fornendo una giustificazione ideologica a disuguaglianze crescenti, la ritirata dello Stato davanti a un mercato lacerato da conflitti sempre più aspri, la legittimazione dell’abbandono della solidarietà nei confronti degli ultimi e degli sforzi per la loro inclusione.
Di tenere sotto controllo una visione deviata di fronte ai rischi che il degrado dell’ambiente produce, un pensiero unico che interpreta la diversità come minaccia, aspetti questi che denunciano la presunzione di poter dominare la realtà senza fare riferimento al bene comune.
Noi che ci ispiriamo alla dottrina sociale della Chiesa abbiamo un contributo specifico da offrire.
Una prima traccia da non disperdere è l’esperienza di essere tutti sulla stessa barca: un virus non guarda in faccia a nessuno e non tiene conto di differenze, disuguaglianze e frontiere. Di fronte alla pandemia di Covid-19 riscopriamo l’unità della famiglia umana, a livello del legame tra i singoli come tra le nazioni: nessuno può pensare di cavarsela da solo, isolandosi.
Una seconda traccia è l’esperienza della fragilità umana: per quanti sforzi facciamo, non siamo mai padroni del nostro destino anche se i progressi scientifici e tecnologici e la crescita economica hanno via via ridotto le aree di precarietà, fino a darci l’illusione di essere invulnerabili o capaci di fornire una soluzione tecnica a qualsiasi problema.
Una terza traccia è la qualità etica del legame che ci unisce: il rischio del contagio rende evidente come la vita di ciascuno sia affidata alla responsabilità degli altri, ad esempio nel conformarsi alle indicazioni sui comportamenti prudenziali da adottare. Anche nei gesti più quotidiani, come lavarsi le mani, è in gioco la relazione, la cura e la responsabilità sociale.
Una quarta traccia ci porta a considerare che la salute e la sicurezza sono beni rivolti a tutti e pertanto da proteggere. Perciò l’esercizio della responsabilità nei confronti degli altri incorpora la cura per questi beni comuni che proteggono la vita di tutti. Proprio all’interno del sistema sanitario riemerge in questi mesi il valore di una risorsa su cui possiamo contare: la professionalità dei suoi operatori, che li porta a svolgere il proprio compito con una dedizione che va al di là di qualunque dispositivo contrattuale.
Una quinta traccia che l’emergenza Covid-19 ci riporta sotto i nostri occhi è la centralità della politica nella sua funzione originaria di autorità che si prende cura di ciò che non può essere delegata ad altri e cioè la salute di tutti e la tenuta del sistema sanitario.
Come orientarsi guardando al futuro?
Ritrovando i punti di forza che da sempre hanno guidato la nostra vita, essendo flessibili mentalmente ai mutamenti in corso, accettando l’incertezza, governando la paura che induce a chiudersi invece di aprirsi per cogliere le nuove opportunità.
La tecnologia ci ha portati a pensare che i rapporti con gli altri potevano essere facilitati. Purtroppo non è così, e la dimostrazione sta che oggi facciamo fatica o non sappiamo più come stare insieme. Oggi scopriamo che la cosa più importante è vivere con relazioni costruttive e fraterne, che il rapporto umano e la condivisione sono ancora importanti.
Va ripreso quell’atteggiamento di fiducia fondamentale nei confronti della vita che consente alle persone di fare un passo in avanti, di impegnarsi, di mettersi in gioco, accogliendo l’incapacità di spiegare e dominare tutto, senza occultare conflitti e contraddizioni, né nascondere il mistero radicale dell’esistenza e l’orizzonte della sofferenza e della morte.
In questi mesi abbiamo potuto raccogliere segnali che indicano come la società italiana sia ancora animata dalla fiducia. Traspare nei comportamenti di chi continua a svolgere il proprio lavoro di cura anche a rischio della propria salute, o nello sforzo di evitare che qualcuno rimanga indietro (pensiamo ad esempio ai volontari che assicurano la spesa agli anziani soli).
Certo, assumere questo atteggiamento di fiducia è più difficile per chi è malato, o in quarantena, o impossibilitato a stare vicino a un parente ricoverato: ma anche in queste condizioni più estreme, come di fronte alla morte, possiamo scorgere testimonianze di questa forza che sgorga tanto dalla profondità delle persone quanto dalla solidità delle loro relazioni.
Non si tratta di un ottimismo di facciata: è davvero un credito accordato alla vita anche se non è scontato. Può risultare davvero “contagioso” se l’ottimismo saprà mantenersi qualora il tempo dell’emergenza dovesse prolungarsi. L’ottimismo è l’energia pulita e vero anticorpo per contrastare pessimismo e paura e potrà darci le energie necessarie per ripartire con uno sguardo rinnovato. Se il tempo del coronavirus riuscirà a rinvigorirlo, ci avrà fatto un grosso regalo.
Sarebbe contraddittorio se non fossimo i primi a mettere a disposizione il nostro patrimonio valoriale. Fa parte di questo contributo anche la preghiera. Pregare significa riconoscersi non autosufficienti, è atto di affidamento per continuare a farsi prossimo. Pregare significa vivere la propria umana fragilità, trasformandola per trasmettere l’amore per ogni essere umano e per ogni creatura.
Questo sguardo rinnovato alimenterà la speranza mentre cerchiamo di dare risposte alle esigenze del bene comune e della giustizia, cominciando dall’adempimento dei propri doveri e delle proprie responsabilità a livello personale e familiare, ma anche sociale come cura degli ammalati, dei più deboli, quando il sistema sanitario risulta insufficienti a soddisfarne tutti i bisogni.
Don Paolo Bonetti
Consigliere Ecclesiastico Nazionale Coldiretti
Dai lavori del Consiglio nazionale Federpensionati Coldiretti del 27.01.2021